V

LA PROSA E LA NUOVA POETICA

Nell’inverno ’31-32 e nella successiva primavera, il Leopardi tornò alle Operette Morali che aveva lasciato nel 1827 dopo il Copernico e il Dialogo di Plotino e Porfirio. E compose il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e un amico.

Il primo è probabilmente legato a quel giornale «Spettatore» che il Leopardi sperò di fare uscire a Firenze nel 1832 (l’idea, come è noto, è del Levi) allo scopo di cavarne guadagno e che il governo toscano proibí quando il poeta ne aveva già steso il manifesto: interessante per l’intonazione di scherzo illuministico, per quel misto di romantico e di settecentesco (Gozzi nel clima di Amore e Morte) che ritroviamo anche nel Dialogo. E forse proprio questo Dialogo con la sua iniziale prospettiva altamente giornalistica meglio giustifica la definizione che il Leopardi dette nel Tristano delle Operette: «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici». E certo in questo periodo di tensione, prima del Tristano e di Amore e Morte, questo «capriccio malinconico» ha una sua leggerezza briosa particolarissima, una lucidità di mosse di danza, una esile schematicità di struttura quasi senza corpo che raggiunge il limite di una volontà grottesca con quel succedersi saltellante delle risposte come assenti e svagate del venditore (la voce dell’incosciente istinto vitale, del comunque vivere) alle domande tendenziose e gustate del passeggero, sempre piú complesse pur nella loro sostanziale brevità.

Un brio di raccorciata intensità che vuole aderire soprattutto a volontà di misure musicali brevi ed ironiche e al senso di contrasto (reso immediato) della volontà di vivere e del disgusto dell’esperienza inevitabilmente infelice: vita futura apparentemente bella perché irreale, non sperimentata, e passato tutto negativo perché provato e sofferto. Il nocciolo concettuale di questo tema era già nello Zibaldone (1° luglio 1827)[1] ma da quel pensiero ci allontana la volontà di estrema essenzialità, di tono di esperienza passata in scherzo che si traduce in questo predominio del ritmo come in nessun’altra delle Operette Morali: donde la sua esile perfezione, il suo gusto piacevolissimo (che si fa perfino giuoco di parole all’inizio) e in fine la sua leggera esistenza, il suo scarso impegno di complessità che fa intessere il Dialogo su di un nucleo scarsissimo di parole piú volte ripetute. Da cui l’inutilità di ricercarvi un preciso pensiero o il gusto bozzettistico dei due personaggi che appena precisato farebbe decadere il Dialogo a pura riproduzione gozziana.

In questo secondo senso (quello che spinse il De Sanctis a dirlo «il meglio ispirato dei dialoghi leopardiani») una leggera e gustosissima presenza di direzioni ambientali 1832, di strada ottocentesca, e nel primo, lontano dall’ipotesi gentiliana troppo brutalmente consistente (mentre specie questo Dialogo ha una sua poetica ambiguità), una impressione originale dell’incoscienza del vivere comune che sa di aver sofferto e pure è spinto da un impeto incontenibile verso un’ignota felicità. Quest’impeto avvalora quella specie di fervore tradotto nel moto rapido e danzante del Dialogo:

Passeggere

Come quest’anno passato?

Venditore

Piú piú assai.

Passeggere

Come quello di là?

Venditore

Piú piú, illustrissimo.

Un fervore che nell’urto con l’ironia del Passeggere finisce quasi per investirla e, fondendosi con lei, malgrado il suo attento controllo, ritmare tutto il Dialogo: un’adesione del Passeggere al Venditore non è certo nel ragionamento (souffrance)[2], ma nel tono che qui è assunto e che non ha piú quel ghiacciante distacco di altre Operette. A proposito delle quali si può osservare, a caratterizzare il Dialogo del Venditore e quello di Tristano, che essi hanno un’aria piú moderna, meno accademica che li distingue e li avvicina malgrado tutto al tono di tensione e di impeto che ritroviamo in tutto il nuovo periodo.

Ma in tal senso, essenziale al nuovo periodo è il Tristano il cui grande finale è strettamente legato ad Amore e Morte e in certo modo aiuta a intendere quella poesia. Esso rientra piú chiaramente (e senza aria di giuoco anche raffinatissimo che pure distingueva il Dialogo del Venditore dall’eleganza macabra, neoclassica ed accademica di altri “capricci” come l’inizio del Dialogo della moda e della morte) nella Stimmung di questo periodo non come diversivo, come momento di divertimento, ma come nodo essenziale di uno sviluppo poetico che dalla liturgia, dall’affermazione del Pensiero dominante corre verso l’eleganza appassionata di Amore e Morte, verso i cupi e severi accenti di A se stesso, verso la struttura rivoluzionaria della Ginestra.

Perché non solo c’è un atteggiamento piú solido, meno svagato e rassegnato o gelidamente superiore[3], un atteggiamento deciso nel negare e nell’affermare fino a quell’intenso e quasi assurdo «se ottengo la morte, morrò cosí tranquillo» che denota tutto un impegno eroico simile a quello del Pensiero dominante, simile a quello con cui il poeta si porrà di fronte alla morte in Amore e Morte; non solo l’impostazione del Dialogo risponde a questa volontà eroica di suprema affermazione, difesa ed attacco contro un mondo disprezzato e a favore di una verità posseduta saldamente (ben piú che un’amara costatazione da superare edonisticamente in dolci ricordi o in abbandoni alla natura), ma il tono, la musica interna di questa prosa poetica hanno questo timbro di forza non retorica o rozza, di forza severa e perfino a suo modo serena, «virile» (secondo la parola adoperata ben chiaramente nel Dialogo) di chi ha raggiunto il completo possesso di sé, del proprio mondo interiore, del valore e del disvalore. Una forza eroica che si rivela in quelle recise affermazioni («Il genere umano che ha creduto e crederà tante sciempiataggini non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare»)[4] aggravate e preparate da un’ironia sdegnata, superiore, che si traduce in quei movimenti crudeli di cui è esempio massimo quello che inizia «gli uomini sono in generale come i mariti...».

Certo l’ironia che devia la direzione del Dialogo sulla tenue prospettiva del pallido uomo qualunque (l’Amico), a volte si fa monotona e perfino fiacca o eccessiva ed acida in un tessuto spesso troppo minuto e sofistico. Non è tanto in questi sfoghi alti sempre, ma minuziosi ed eccessivi contro il «secol sciocco», contro l’Ottocento generoso e generico o contro i giornali che vive il tono piú alto del Dialogo, ma nell’impegno con cui il Leopardi si contrappone al suo tempo con uno stile ed un lessico forte e coerente in cui le sfumature ironiche portano un arricchimento ma non una deviazione, come in certi altri punti del Dialogo dove pure non manca del tutto l’ispirazione fondamentale.

Ce ne convinciamo a leggere il centro dell’inizio, con quei ripetuti accenti di altezza e di forza personale: «coraggio e fortezza d’animo», «giudico assai poco virile», «so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti, la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano».

Un tono virile e non retorico, tanto procede dall’intimo di una esperienza unica sí, ma umana e che si considera di validità generale[5] e che qui riassume, in conclusioni assolute per la persuasione, per il tono poetico di certezza che se ne crea, tante precedenti discussioni dello Zibaldone e delle Operette: là piú ragionate e presentate in crisi, qua invece affermate come verità e certezza interiore. E come verità indiscussa anche il suo materialismo senza veli («il corpo è l’uomo»; «uno che sia debole di corpo non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al piú chiacchierare, ma la vita non è per lui») fa sentire qui ben piú che altrove la sua forza di esperienza personale, di testimonianza, di «martirio».

Dall’alto di una integrale esperienza di souffrance e del conseguente possesso di coscienza, accertato in un momento in cui la persuasione è stata esaltata da una vita di passione, la polemica con il secolo supera i limiti di una trattazione prosastica e nell’arricchimento notevolissimo dell’acceso scherzo di palinodia costituisce il motivo lirico di questa prosa che potremmo sentire come un «nuovo canto»: tanto sorpassa i limiti piú alti delle altre Operette, tanto che supera l’eleganza sottile, la lucidità di avorio funereo o il semplice capriccio melanconico e non con un turgore eloquente, ma con un calore che raggiunge l’incandescenza e la purezza del calor bianco.

Ed è la grande pagina finale con il suo inno alla morte che giustifica come momento idealmente centrale anche la differenza della prima parte del Dialogo, polemica, ironica, preoccupata di nascondere quell’impeto personale che erompe piú puro e lirico nell’ultima pagina. Qui tutto si fa essenziale senza perdere nulla di quanto arricchisce le pagine precedenti e neppure quell’aura malinconica che nasce alle prime battute del Dialogo e che par calcolata nel titolo stesso in cui il Leopardi sostituí il primo nome «Autore» con quello ben piú suggestivo di Tristano: la suggestione etimologica fondendosi con l’apporto romanzesco dell’eroe bretone accresce questo carattere di malinconia avventurosa, di «capricci malinconici» e solleva e alleggerisce poeticamente senza turbarla questa prosa ardente e suprema.

Le linee della polemica lunga contro i codardi, le speranze inutili, lo spiritualismo vanesio, non si perdono, ma si riassumono come negazione energica del disvalore.

Quella mescolanza di distacco non gelido e magnanimo («oramai né nimici né amici mi faranno gran male»), di impegno impetuoso e di mestizia senza sentimentalismo, si eleva in questa pagina a superiore unità e con stilistica coerenza si sorregge senza pause prosastiche dal forte «verissimo» con cui si inizia il primo movimento (cosí simile al movimento piú alto di Amore e Morte) al finale vibrato e risoluto: «io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi».

L’inno alla morte ha un primo movimento, il piú fuso e violento, che culmina nel periodo aperto da quelle parole cosí decise e semplici («pure ho un sentimento dentro») in cui questa prosa altissima e «moderna» sfugge ogni ricordo letterario preciso, ogni volontà accademica, ed è svolto da quei ripetuti e quasi estatici inizi poetici: «troppo son maturo... troppo mi pare... cosí morto... cosí conchiusa...». Il movimento seguente si eleva nel procedere e si precisa potentemente a mano a mano che meglio si chiarisce, oltre le sfumature ironiche, la sua natura eroica che lo colloca nelle linee e nei temi della nuova poetica: «Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età e il pensiero d’essere vissuto invano, mi turbano piú, come solevano». Frase che suggella tutto un cambiamento di atteggiamento e di tono[6].

E la serenità che qui è raggiunta vince ogni dolcezza di idillio, è serenità di una tensione perfettamente espressa come bene indica l’ultima frase col suo procedere teso e accentuato alla fine, con una proposta lunga, una doppia risposta incisiva e rapida («dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere») e poi il precipitare risoluto nella conclusione rilevata ed eroica.

Ci sembra dunque che la valutazione della piú grande Operetta leopardiana acquisti di precisione storica proprio se collocata nell’ambito della nuova poetica di cui, in una altissima soluzione di prosa, ripresenta le forme stilistiche, i moduli essenziali, la forza che li tende: e non solo un generico empito biografico.


1 «Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di piú assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho domandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla né piú né meno quale la prima volta... Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno...».

2 Anzi il tono di distacco del Passeggere è una conferma della coscienza della superiorità leopardiana al comunque vivere.

3 E già il Fubini l’aveva ben visto: «difende non tanto le Operette quanto se stesso e tutta l’opera sua, né soltanto si difende, ma offende con un vigore e con una acrimonia fino allora ignorate. Un nuovo Leopardi dunque? Forse e leggendo il Dialogo, vien fatto di pensare che a quel mutamento abbia contribuito quella passione da cui era agitato per la Fanny Targioni Tozzetti». Operette, ed. cit., p. 293.

4 E nello Zibaldone dove si esprimeva piú liberamente al riparo di ogni censura, nello stesso periodo (giugno-settembre 1832): «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte».

5 Non per nulla lo Zibaldone si chiude (4 dicembre 1832) con questo pensiero: «La cosa piú inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessissimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di veder verificata nel caso proprio la regola generale».

6 Si pensi alla fine del Passero solitario e alle Ricordanze:

E quando pur questa invocata morte

sarammi allato...

... di voi per certo

risovverrammi; e quell’imago ancora

sospirar mi farà, farammi acerbo

l’esser vissuto indarno, e la dolcezza

del dí fatal tempererà d’affanno.